Le prime raccomandazioni per la rianimazione cardiopolmonare sono state emesse dall’American Heart Association nel 1974 e aggiornate regolarmente fino al 2015. La specificità della rianimazione cardiopolmonare intraospedaliera è stata riconosciuta per la prima volta nel 1997, il che spiega il ritardo nell’instaurazione della “catena di sopravvivenza intraospedaliera”. Questa catena di sopravvivenza richiede una formazione con il mantenimento delle competenze del personale ospedaliero nei gesti di rianimazione cardiopolmonare di base e l’uso di un defibrillatore esterno automatizzato, la fornitura di carrelli di urgenza e defibrillatori in diverse zone strategiche degli stabilimenti, una valutazione delle pratiche da parte di un comitato intraospedaliero e un registro di tali eventi. Occorre distinguere tra l’arresto cardiaco del paziente monitorato e quello del paziente non monitorato. L’arresto cardiaco del paziente monitorato è quello che si verifica in sala operatoria o in terapia intensiva: presenta particolarità nella diagnosi e nel trattamento, legate alla presenza del monitoraggio e frequentemente della ventilazione artificiale. In caso di arresto cardiaco legato a un sovradosaggio di anestetici locali durante un’anestesia locoregionale in un paziente non ventilato, sono ora proposti trattamenti “specifici”. L’arresto cardiaco del paziente non monitorato si inserisce nell’algoritmo terapeutico generale dell’arresto cardiaco extraospedaliero. Viceversa, pone un vero e proprio problema di politica medica attraverso l’applicazione della catena di sopravvivenza intraospedaliera raccomandata nelle raccomandazioni internazionali e nazionali.