{"title":"«Maneggiare dalla carità all'economia». Le rendite vitalizie tra previdenza e provvidenza (Italia settentrionale, secoli XVII-XVIII)","authors":"Marco Dotti","doi":"10.3280/ss2022-177003","DOIUrl":null,"url":null,"abstract":"L'articolo si focalizza sullo sviluppo delle rendite vitalizie in antico regime, prendendo in considerazione i contratti stipulati da diverse istituzioni caritative nell'Italia settentrionale. Questi strumenti consentivano ai sottoscrittori di impiegare delle risorse (denaro, crediti, immobili) per costituire una pensione a proprio favore e/o a beneficio di terzi, includendo talvolta delle ulteriori prestazioni (esequie, messe pro anima, doti a favore di figlie o nipoti). Le rendite vitalizie costituirono, tra sei e settecento, un caso di studio e un campo di applicazione della nascente probabilità. Lo sviluppo di tali pratiche rappresentò dunque un punto di osservazione privilegiato sui processi di matematizzazione della realtà socio-economica, che consente di osservare la pervasività delle innovazioni, ma anche i fattori di resilienza ravvisabili nella prassi contrattuale. Le fonti suggeriscono che l'introduzione delle tavole di sopravvivenza, pur rendendo in una certa misura prevedibile l'aspettativa di vita dei beneficiari, non assorbiva tutte le loro esigenze e soprattutto non poteva controllare altre incognite, connesse, ad esempio, alla natura e alla qualità del capitale impiegato per costituire le rendite. La molteplicità di istanze sociali impediva, nella maggior parte dei casi, di incasellare i contratti in una griglia precostituita e richiedeva invece una più articolata valutazione contestuale.","PeriodicalId":39512,"journal":{"name":"Societa e storia","volume":"1 1","pages":""},"PeriodicalIF":0.0000,"publicationDate":"2022-09-01","publicationTypes":"Journal Article","fieldsOfStudy":null,"isOpenAccess":false,"openAccessPdf":"","citationCount":"0","resultStr":null,"platform":"Semanticscholar","paperid":null,"PeriodicalName":"Societa e storia","FirstCategoryId":"1085","ListUrlMain":"https://doi.org/10.3280/ss2022-177003","RegionNum":0,"RegionCategory":null,"ArticlePicture":[],"TitleCN":null,"AbstractTextCN":null,"PMCID":null,"EPubDate":"","PubModel":"","JCR":"","JCRName":"","Score":null,"Total":0}
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Abstract
L'articolo si focalizza sullo sviluppo delle rendite vitalizie in antico regime, prendendo in considerazione i contratti stipulati da diverse istituzioni caritative nell'Italia settentrionale. Questi strumenti consentivano ai sottoscrittori di impiegare delle risorse (denaro, crediti, immobili) per costituire una pensione a proprio favore e/o a beneficio di terzi, includendo talvolta delle ulteriori prestazioni (esequie, messe pro anima, doti a favore di figlie o nipoti). Le rendite vitalizie costituirono, tra sei e settecento, un caso di studio e un campo di applicazione della nascente probabilità. Lo sviluppo di tali pratiche rappresentò dunque un punto di osservazione privilegiato sui processi di matematizzazione della realtà socio-economica, che consente di osservare la pervasività delle innovazioni, ma anche i fattori di resilienza ravvisabili nella prassi contrattuale. Le fonti suggeriscono che l'introduzione delle tavole di sopravvivenza, pur rendendo in una certa misura prevedibile l'aspettativa di vita dei beneficiari, non assorbiva tutte le loro esigenze e soprattutto non poteva controllare altre incognite, connesse, ad esempio, alla natura e alla qualità del capitale impiegato per costituire le rendite. La molteplicità di istanze sociali impediva, nella maggior parte dei casi, di incasellare i contratti in una griglia precostituita e richiedeva invece una più articolata valutazione contestuale.