L’apparente paradosso del betablocco nell’insufficienza cardiaca. Un tuffo nel passato … sempre attuale

Alberto Genovesi Ebert
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Abstract

La riduzione della funzione sistolica ventricolare sinistra per molti anni è stata il centro della sindrome scompenso cardiaco e, conseguentemente, l’obiettivo terapeutico è stato l’incremento della funzione di pompa. L’impatto prognostico negativo di quasi tutti i farmaci inotropi e l’osservazione che l’ipertono simpatico si associasse al peggioramento della prognosi hanno suggerito che il sistema neuroumorale avesse un ruolo chiave e che la sua modulazione potesse essere utile. L’uso dei betabloccanti, farmaci dotati di effetto inotropo negativo, seppur apparentemente paradossale, ha avuto successo nei grandi studi clinici che hanno reso questi farmaci una pietra angolare della terapia dello CHF. Carvedilolo, Metoprololo CR/XL e Bisoprololo sono i farmaci testati con successo negli studi. La terapia deve cominciare da bassi dosaggi con un aumento graduale delle dosi fino al raggiungimento di una frequenza cardiaca attorno a 50-60 battiti/minuto nei pazienti in ritmo sinusale. La fibrillazione atriale, l’età avanzata, il diabete mellito e la broncopneumopatia cronica ostruttiva non rappresentano una controindicazione. Anche l’insufficienza cardiaca acuta, la necessità di farmaci inotropi e la stenosi aortica non rappresentano controindicazioni assolute all’uso dei betabloccanti poiché dati osservazionali suggeriscono che i betabloccanti conferiscano vantaggi anche in queste condizioni cliniche che, tuttavia, meritano particolare attenzione e meditata valutazione clinica.
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